CLAUDIO SESSA E STEFANO ZENNI

Curatore di “Mister Jelly Roll” di ALAN LOMAX dialoga con STEFANO ZENNI autore di “Louis Armstrong. Satchmo: oltre il mito del jazz”.

Conduce l’incontro Alessandro Rigolli

 

“Lo senti questo riff? – disse – Ora lo chiamano Swing, ma è solo una piccola cosa che ho inventato un sacco di tempo fa”. Questa frase che ammicca dalla candida quarta di copertina di questo libro raccoglie l’essenza delle quasi 370 pagine che ricostruiscono la vicenda di una delle figure più emblematiche – e se vogliamo, mitizzate – della storia del jazz. Protagonista di questo volume è Jelly Roll Morton, al secolo Ferdinand Joseph LaMothe, pianista di New Orleans, personaggio il cui profilo si muove ambiguo tra il lascito musicale e la figura provocatoria di un artista che si autodefiniva “l’inventore del jazz”. “Mister Jelly Roll” viene raccontato in queste pagine – per la prima volta (e meritoriamente) edite nel nostro paese da Quodlibet nell’ambito collana “Chorus” curata da Claudio Sessa – grazie al lavoro di Alan Lomax, grande etnomusicologo scomparso nel 2002 che ha contribuito in maniera fondamentale alla conoscenza delle espressioni musicali di matrice popolare che dal blues arrivano al jazz.

Come evidenzia Stefano Zenni nella sua interessante introduzione: “Il libro Mr. Jelly Roll è stato per decenni l’unica biografia mortoniana da cui emergono con nettezza certi tracci caratteriali dell’uomo. Rafforzata da discutibili testimonianze di altri colleghi, ha modellato l’immagine dell’uomo come un narcisista, presuntuoso e soprattutto menzognero, sempre pronto ad aggiustare i fatti (a partire dalla sua data di nascita) alle necessità del proprio ego e della primogenitura nel jazz e nel blues”. 

Al di là delle revisioni e delle verifiche storiche delle quali è stato oggetto, questo lavoro, come rileva Sessa nella sua “Nota”, “è da decenni uno dei “testi sacri” per chiunque si occupi di jazz [anche perché] l’ombra immensa di Jelly Roll Morton si staglia su buona parte di ciò che ascoltiamo, e non solo perché ogni jazzista non può far altro che continuare a “suonare del Jelly Roll”.